6.10.11

Una comunità dei beni comuni contro il "neo-totalitarismo capitalista" di Riccardo Pietrella


In un mondo disintegrato umanamente e socialmente, da dove ripartire per ricreare le condizioni per un modello culturale, politico ed economico alternativo che sappia ricucire le ferite inferte alla vita dal “neo-totalitarismo capitalista”? Da dove ripartire per ricreare le condizioni per una società in pace e solidale in cui il bene di ognuno possa riconciliarsi con il bene di tutti; una società in cui le persone possano convivere non solo per indignarsi ma anche per innamorarsi insieme della terra, del lavoro, dell’energia, dell’acqua, dell’aria, dell’ambiente, della conoscenza, della sicurezza? Da una comunità di cittadini che a livello locale, nazionale ed europeo possa prendere le decisioni che contano senza delegare questo diritto agli stessi responsabili della disintegrazione.
di Riccardo Petrella, da sbilanciamoci.org
Si può parlare di disintegrazione europea per una duplice ragione. Primo:la storia degli ultimi 30 anni (a partire dal 1971-73) in Europa è, in generale, la storia di una sempre più marcata regressione rispetto all’obiettivo dell’integrazione politica dell’Europa. Questa appare, nella testa delle attuali classi al potere, più lontana e impossibile di quanto lo fosse agli occhi degli europei di 60 anni fa. Secondo: la sottomissione voluta dai poteri forti dell’Unione europea al neo-totalitarismo capitalista ha disintegrato il tessuto sociale ed economico delle società europee. L’Europa è diventata un arcipelago di tante isole diverse, diseguali, internamente fratturate da forti ineguaglianze e sbattute da venti di esclusione verso l’esterno. Si potrebbe analizzare una terza ragione, la disintegrazione ecoambientale (rapporti esseri umani-natura), ma questa, per quanto estremamente importante per il divenire delle società, va ben al di là del contesto specificamente europeo.
La disintegrazione politica
Le classi dirigenti del secondo dopoguerra crearono nel 1951 la prima «comunità europea» (la Ceca, la comunità del carbone e dell’acciaio), dotata di poteri sovranazionali e mirante alla messa in comune di due risorse industriali chiave di grande importanza strategica per l’economia dell’epoca. In pochi anni, le speranze riposte nella Ceca, e poi nell’Euratom creata sei anni dopo, si infransero di fronte alla resistenza feroce dei poteri forti degli Stati membri (erano solo sei) i quali riuscirono – soprattutto la Francia e meno apertamente la Germania – a boicottare e far saltare de facto la sovranazionalità della Ceca e dell’Euratom. La creazione nel 1961 della Comunità economica europea (Cee, detta Mec – Mercato Comune) sempre a sei, segnò la prima grande regressione e la vittoria delle tesi funzionaliste in materia d’integrazione tra Stati sovrani.Secondo le tesi funzionaliste – sposate dalla grande maggioranza delle élite europee, auto dichiaratesi realiste, pragmatiche e possibiliste – l’integrazione politica dell’Europa sarebbe stata realizzata solo mettendo anzitutto insieme gli interessi economici. Essa doveva avvenire per fasi graduali, la prima essendo quella della creazione di un mercato unico (libera circolazione interna delle risorse, dei beni, dei prodotti, dei servizi). L’integrazione dei mercati avrebbe condotto alla seconda fase: la convergenza delle strutture economiche, la quale a sua volta avrebbe condotto necessariamente alla definizione e realizzazione di politiche europee comuni. Considerato che nessuna politica economica comune avrebbe potuto affermarsi solidamente in assenza di una moneta comune, il funzionalismo sosteneva che le politiche comuni avrebbero imposto e condotto alla creazione di una moneta unica e quindi, inevitabilmente, alla politica monetaria e finanziaria europea. Per essere efficace, questa avrebbe richiesto un potere politico europeo: l’integrazione politica sarebbe arrivata così all’appuntamento. «Dal mercato al potere politico europeo» attraverso l’economia, le politiche economiche comuni e poi la moneta comune.Sappiamo com’è andata: in 50 anni, l’Europa ha costruito un (quasi) mercato unico di risorse, merci, beni e servizi, e si è data una moneta unica (per quasi tutti i paesi dell’Ue), ma il mercato unico non ha indotto la convergenza economica e le politiche economiche comuni. In Europa non si parla più di «politiche comuni», ma di coordinamento delle politiche degli Stati membri. Né la moneta comune, l’euro, ha partorito il governo politico integrato, anzi ha prodotto il contrario, ha affossato il poco di potere politico europeo rappresentativo costruito nel frattempo. In effetti, con la creazione della Banca centrale europea (Bce), soggetto titolare della politica monetaria europea e costituzionalmente indipendente dalle altre istituzioni, la moneta unica ha tolto il potere monetario e finanziario agli Stati membri senza però trasferirli a un potere politico dell’Unione. Se la Bce è politicamente indipendente dai governi degli Stati e dalle istituzioni europee, essa non lo è, però, nei confronti dei mercati finanziari europei e mondiali. Secondo il suo proprio dire, la Bce non fissa il valore dell’euro, il suo «prezzo», via il tasso d’interesse. Le sue manovre sui tassi sono fatte esclusivamente in reazione ai mercati finanziari (abbassamenti, per riscaldare un’economia europea indecisa o infreddolita; aumenti, per ridurre l’eccitazione surriscaldata dei mercati). Lo stesso vale per i suoi interventi sulla massa monetaria, agendo come qualsiasi operatore privato (acquistando o vendendo beni e prodotti finanziari) sperando nella buona reazione dei mercati. In questo quadro, alla fine, sono i mercati finanziari che dettano la politica monetaria e finanziaria dell’Europa. Come si vede negli ultimi mesi, il futuro dell’Europa dipende in maniera crescente non più dai capitali europei e americani ma dai capitali cinesi che stanno facendo acquisti in massa di imprese, fabbriche, marchi e beni europei. I «responsabili» europei se la cavano dicendo: «in una società capitalista non c’è nessun male in ciò. Ieri abbiamo dominato i cinesi. Oggi la ruota va in senso contrario. Punto». Ma lo spettacolo della debolezza strutturale e della disunione politica dell’Europa di fronte alla potenza schiacciante e micidiale dei soggetti finanziari, speculatori per di più, e persino delle società private di rating induce una smorfia di rabbia e di indignazione.
La disintegrazione sociale ed economica
Quanto sopra descritto è stato possibile perché, in coerenza con il sistema di valori che le ha indotte a sposare le tesi funzionaliste, le classi dirigenti europee hanno aderito, a partire dagli anni ‘70, ai dogmi del neo-totalitarismo capitalista espressi dalla “Teologia Universale Capitalista”, la quale ha fatto credere, come dogma di fede, che non vi è alternativa al sistema capitalista, al dio trino del capitale-mercato-impresa privata, alle dee della competitività e dell’efficienza, al sommo pontefice del management.
Quest’Europa ha smantellato con voluta pervicacia la sola forma reale d’integrazione politica e sociale che si era sviluppata e consolidata nei vari paesi europei tra gli anni ‘50 e ‘70, e cioè lo Stato del welfare. Senza essere stato europeizzato sul piano istituzionale, il sistema del welfare aveva dato una certa coesione e caratteristiche comuni alle relazioni tra i cittadini europei, un italiano potendo andare a farsi curare in Danimarca o in Belgio, una studentessa irlandese potendo completare la formazione universitaria in Germania o in Grecia. Aver messo sempre di più i beni e i servizi del welfare sul mercato ha mercificato e monetarizzato il vivere insieme e sottomesso i 500 e più milioni di cittadini dell’Ue attuale alla dittatura dei rendimenti finanziari a breve termine. L’Europa – da Schroeder a Jospin, da Prodi a Blair, da Amato a Dehaene, da Gonzales a Rasmussen, da Ciampi a Trichet, da Bersani a Barroso, dalla Suez alla Fiat, dalla Danone alla Nestlé, da Nokia alla Philips, dalla Volkswasgen alla Eni, dalla Basf a Ikea, dalla British Telecom alla Trenitalia… – ha voluto e continua a voler mercificare tutto, beni e servizi. Continua imperterrita ad affermare, malgrado gli sfasci economici, sociali e ambientali provocati da tali “soluzioni”, che il nostro futuro dipende dalla competitività, dalle liberalizzazioni, dalle deregolamentazioni, dalle privatizzazioni, dall’arricchimento dei pochi e dai sacrifici dei molti, i più impoveriti. Essa è, infine, all’origine della formazione di un’oligarchia finanziario-commerciale e tecno-burocratica culturale la quale sta mettendo sempre più apertamente in crisi i principi di giustizia sociale, di eguaglianza nei diritti, e la democrazia rappresentativa.
L’idea della ricerca affannosa di una «governance economica europea», una costruzione lontana anni luce dall’Europa socialmente più giusta e pacifica e dal governo politico integrato europeo promessi 50 anni fa, la dice lunga sulla gravità della condizione degli europei oggi. Che l’asse della strategia 2020 dell’Ue sia diventata una «resource efficient Europe» rivela l’ampiezza del compito di ricostruzione che ci aspetta.
Il pragmatismo economicista totalitario del grande blocco ideologico-sociale europeo delle classi dirigenti nate negli anni ‘50 è fallito miseramente. Bisogna ri-cominciare.
Ri-cominciare dalla «comunità» di cittadini
Ri-cominciare da che cosa, con cosa e come? Le «vecchie» élite europeiste, anche fra chi è giovane d’età, pensano che la soluzione chiave sia di natura istituzionale. A tal fine, riprendendo l’approccio funzionalista alla rovescia, affermano che la formazione di un minimo di governo federale europeo è necessario per ripartire verso politiche comuni e verso un’Europa democratica, socialmente più giusta, solidale e aperta al mondo. C’è una buona parte di vero e di giustificato in siffatto approccio, ma non mi sembra soddisfacente. Un minimo di governo federale europeo per fare cosa? Rinviare la risposta a dopo è troppo semplice e pericoloso. Un governo europeo per meglio favorire la competitività interna e mondiale delle imprese, delle città e delle regioni europee più forti, più ricche? Per mettere l’Europa in condizioni di essere più «resource efficient» per i capitali investiti? Per meglio gestire la politica estera imposta dalla Francia, dalla Germania e dal Regno Unito?
La soluzione è quella che unifica l’approccio istituzionalista (ripartiamo dal governo federale europeo) e l’approccio sociale (partiamo dai contenuti politici).
Oggi il legame tra i due approcci è diverso da quello che sarebbe stato utile 60 anni fa, e anche 30 anni fa. Il legame è la «comunità» perché è il vivere insieme, «fare comunità», che è stato maciullato dall’Europa di questi anni. Occorre, quindi, ri-cominciare dal «fare comunità», e in particolare dal «fare comunità europea». Occorre ri-cominciare con le strategie di disarmo dei poteri finanziari. Infine, si deve ri-cominciare dando ai cittadini il potere che è loro, valorizzando e rivivificando i parlamenti rappresentativi – locali, regionali, nazionali e il Parlamento europeo – con l’adozione di metodi e pratiche di democrazia partecipata.
È superfluo dirlo, ma ri-cominciare significa posizionarsi su una prospettiva di due-tre decenni di grandi battaglie politiche, economiche e sociali. Il che non significa che non si debba subito tentare di cominciare dall’essenziale e «vincere» su obiettivi parziali a breve termine, ma determinanti.
Ri-cominciare dalla comunità, da «fare comunità» è essenziale perché quel che è stato atomizzato e polverizzato è il senso della comunità, al di là delle comunità di interessi immediati, tra vicini, tra affini. È stato sbriciolato il senso dello Stato, e non vi è democrazia né giustizia né libertà senza senso della comunità e dello Stato. A tal fine la priorità è arrestare a livello europeo la mercificazione dei beni essenziali e insostituibili per la vita e il vivere insieme. Si tratta di togliere alle logiche del mercato e della finanza privata il governo dei beni comuni. Propongo, a tal fine, che tutti i movimenti europei per un’altra società, un’altra economia, un’altra Europa, un’altra finanza, un’altra democrazia, un’altra sostenibilità, un’altra città, un’altra educazione, un’altra etica, un’altra immigrazione, si diano come obiettivo comune una campagna per la promozione di una Comunità europea dei beni comuni. Si tratterebbe di una Comunità dotata di poteri sovranazionali per quanto riguarda la terra, il lavoro, l’energia, l’acqua, l’aria, l’ambiente, la conoscenza, la sicurezza (nelle sue declinazioni essenziali: militare, energetica, alimentare, idrica, finanziaria). Una Comunità non verticale, piramidale, tecnocratica, ma fondata sull’integrazione di 100 e più comunità regionali dei beni comuni dotate delle responsabilità, competenze e mezzi di base per «fare comunità» al loro livello, rappresentante un livello costruttivo di identità, di appartenenza e di solidarietà. Tali comunità regionali, evidentemente, svolgeranno correttamente il ruolo loro solo se saranno a loro volta fondate sulla promozione e il sostegno delle «comunità locali». Non è mia opinione che sia necessario far saltare le «comunità nazionali» anche se, come dimostrano i casi belga, spagnolo e italiano, il «nazionale» può diventare un ostacolo anchilosante maggiore a «far comunità» nel senso nuovo desiderato e vissuto dalle nuove generazioni.
Per fare la «comunità europea dei beni comuni» occorre disarmare la finanza privata, liberando le nostre società dalla loro sottomissione ai soggetti finanziari. Le soluzioni immediate, realizzabili, sono note: mettere fine all’indipendenza politica della Banca centrale europea, stabilire una regolazione monetaria e finanziaria a livello della comunità europea mediante la messa fuorilegge delle transazioni speculative sui mercati dei derivati, togliere la legittimità di valutazione dello stato di salute economica di un paese, di un’impresa, di una banca, di una città, di una regione, alle cinque società principali private di rating e stabilire un sistema di valutazione pubblico, trasparente come quello emesso in piedi dall’Undp sugli indicatore di povertà umana. Ridare alle comunità locali, regionali, nazionali e alla comunità europea dei beni comuni il potere sulle istituzioni di credito (oggi esse sono tutte private) rappresenta una condizione necessaria e indispensabile per un’altra Europa, un’altra economia, un’altra città.  Se non si modifica radicalmente il sistema creditizio non vi è speranza per un altro cammino.
Per questo, è necessario ri-cominciare con il dare la responsabilità ai cittadini. La delega della responsabilità agli eletti è stato il salto storico maggiore nel funzionamento politico e socio-culturale delle nostre società. Oggi, però, esso rivela dei limiti strutturali, la conoscenza, la comunicazione, le informazioni, gli spazi pubblici possibili, i meccanismi identitari e decisionali collettivi, essendo profondamente differenti da quelli in atto 40 o 30 anni fa. Il mondo capitalista ha fatto tesoro di questi mutamenti imponendo il primato del consumatore auto-organizzato al ruolo del cittadino. La partita non è chiusa per sempre. Le varie primavere, anche recenti, hanno dimostrato che il cittadino è un fuoco che non si spegne mai. La parola «cittadino» è possente. Se sono messi in condizione di farlo, i cittadini preferiscono la responsabilità alla servitù. Occorre che il parlamento europeo, come i parlamenti regionali e locali, riorganizzino il loro funzionamento allo scopo di adottare metodi e mezzi sempre più intensi ed efficaci di partecipazione dei cittadini. L’enorme scandalo rappresentato dal governo italiano che rifiuta di applicare i risultati dei referendum abrogativi sull’acqua rappresenta l’ultimo esempio flagrante di una classe dirigente europea becera, incivile, che ha buttato alle ortiche il senso dello Stato e disprezza con malvagità le decisioni dei cittadini. La «Comunità europea dei beni comuni» sarà cittadina o non sarà.

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