22.10.11

Io, in movimento fuori dai recinti. E dagli scontri.


di BARBARA DI TOMMASO
Da Il Manifesto di mercoledì 19 ottobre
Il capitalismo è capitolato: uno dei tanti cartelli di produzione personale innalzati a Roma recitava così. Già… e dopo? In fondo ci eravamo abituati, pur criticandolo, a questo sistema, ci pareva di conoscerlo (lo sottovalutavamo), ma ora che è in una crisi irreversibile per eccesso di voracità cosa immaginiamo? Cosa possiamo creare per il “dopo” in questo difficile “durante”? La suggestione del benecomunismo proposta da Zizek, praticata al Teatro Valle e nei comitati per l’acqua mi stuzzica, avrei voglia di approfondirla e progettare in quella direzione. Ma chi ci sta? O ci aspettiamo da qualcuno la magica ricetta di uscita dalla crisi con un cambio di maggioranza di governo, qualche taglio più digeribile (le spese militari, per dirne una), un nuovo gruppo di parlamentari più presentabile? Bisogna inventare, pensare, provarci, proporre, ci serve intelligenza perché la svolta è davvero epocale. Ci serve non avere paura di un nuovo mondo che in effetti non sappiamo come potrà essere. Ma come vorremmo che fosse?
Roma 15 ottobre: fino ad un certo punto è stato l’energia e la sfacciataggine stile gay pride, l’ironia dei comitati che hanno fatto eleggere Pisapia, la creatività dei lavoratori della conoscenza e dello spettacolo, la rabbia dignitosa di chi ha perso il lavoro o lo ha precario, la bellezza della varietà: tutti in cammino assieme perché così proprio non va. In quasi 35 anni di cortei e iniziative non ho mai smesso di stupirmi e incuriosirmi per come siamo diversi, ma simili; ripetitivi, ma originali; gli stessi di sempre e i nuovi di oggi. A Roma c’erano decine di migliaia di persone non rassegnate, il Capitale Sociale di questo paese, ognuno con le sue qualità e tanti limiti. Non spariranno domani, torneranno a lavorare nei quartieri, nella scuola, nei luoghi di partecipazione, in alcuni sindacati, e ci si riconvocherà presto, è sicuro. In Italia e nel mondo. È una bella occasione e una grande responsabilità essere potenzialmente la maggioranza nel pianeta! Non vanno sprecate.
Black bloc. I soliti noti. Fanno tristemente parte delle possibilità da mettere in conto quando ci si mobilita in Italia. Vogliamo essere radicali negli obiettivi e nelle forme della lotta senza essere inutilmente distruttivi, per cui vanno scelte altre modalità di mobilitazione, che spiazzino (nel senso letterale: fuori dalla piazza!) per primi costoro, che li costringano a chiedersi se vogliono fare come a Tottenham (qualcuno si chiede cosa è restato di quel terribile fuoco di paglia estivo?) o entrare in dialogo con altri cittadini e movimenti, su obiettivi da perseguire con caparbietà e coerenza. Il sit-in, il boicottaggio continuo, flash mob periodici e coordinati, l’accampamento in luoghi nevralgici, lo sciopero delle città (perché non tutti hanno un lavoro e quindi l’astensione tradizionale non basta più), penso possano avere meno appeal per chi cerca lo scontro con la copertura del corteo e consentano poco di aggregare chi si fa tentare dalla via militare (e maschile) per fare opposizione. Nulla è risolutivo, nulla è a costo zero, nessuna modalità di lotta è dura e pura, ma c’è una qualità del far politica che va preservata e una necessità di proteggere il movimento da paralisi, depressione, paura, soprattutto dopo quello che è successo a Roma. E che ha compromesso per molto tempo il dopo Genova. Vogliamo imparare dalla nostra storia ed esperienza? Non si tratta (solo) di condannare i violenti, si tratta di dire che noi facciamo e forse vogliamo un’altra cosa, siamo da un’altra parte. Poi coi ragazzi delle tifoserie, coi desperados delle periferie, coi militarizzati del blocco nero io ci vorrei pure parlare… ma senza confondermi nel momento della protesta e senza far degenerare le nostre iniziative causa loro. Diciamo no al blocco nero del pensiero e dell’azione che si impossessa di noi.
Il movimento è disorganizzato. Certo, e deve essere in parte così. Nonostante la gratitudine per chi come la Fiom ed altri mettono a disposizione le proprie forze e competenze, non sono d’accordo con quanti evocavano i servizi d’ordine per respingere “i facinorosi”. Ci abbiamo provati tutti a metterli fuori dal corteo, qualcuno è stato in grado di farlo più efficacemente perché più intruppato, esperto, organizzato, maschio. Qualcuno/a ha rischiato perché a mani nude contro bastoni, muscoli, bottiglie e caschi. Ma questo movimento è e deve restare abitato da pensionati, donne, bambini piccoli, disabili in carrozzina, signore con la borsa della spesa. Tutti più o meno sciolti, in un’autorappresentazione collettiva unica, ciascuno col suo cartello o striscione o simbolo. Non so se è movimento o moltitudine o altro, io la chiamerò cittadinanza attiva e diffusa, organizzabile fino ad un certo punto, perché si autoorganizza su obiettivi e campagne di volta in volta, non scegliendo necessariamente appartenenze organizzative stabili, ma partecipazioni mirate e temporanee. Organizziamoci quel tanto che basta per fare massa critica ogni tanto, senza rimpianti per i bei tempi andati dei servizi d’ordine o delle sigle. Riferiamoci e siamo grati alle diverse organizzazioni che scelgono di stare nel movimento senza cercare di cavalcarlo, aggregando, ascoltando, proponendosi, mettendosi a fianco e insieme.
Solo in Italia gli scontri. Vero, interessante. Ricordiamoci però che in Francia certo disagio sociale si è ampiamente manifestato in senso distruttivo con i roghi nelle periferie, che in Inghilterra ancora cercano i responsabili delle devastazioni di questa estate, che in Grecia di scontri ce ne sono periodicamente da due anni a questa parte. A New York hanno arrestato decine di militanti presenti pacificamente nei diversi accampamenti, in Spagna stanno sperimentando forse qualcosa di diverso da cui dovremmo imparare. Insomma: ogni paese ha tradizioni politiche e della protesta sociale diverse, ci sono anche tradizioni dell’ordine pubblico e della repressione specifiche, forse noi siamo troppo ancorati a certe modalità e ritualità e forse alcuni di noi sono anche (permettetemi) un po’ pigri: accamparsi, spostarsi, rischiare arresti, tenere un obiettivo, scioperare ad oltranza, ecc.. è troppo impegnativo. Non voglio fare la moralista, ma mi pare che la fase e la posta in gioco ci richiedano maggior esposizione, come in Val Susa (turni al presidio No Tav giorno e notte a rotazione per mesi, col freddo e col caldo, con la Polizia a pochi metri e le incursioni nei campeggi), come l’anno scorso nell’occupazione di monumenti e tetti, come coi blocchi stradali o dei treni. Direi che in Italia non riusciamo ad organizzare una disobbedienza civile allargata e fatta bene, al di là degli scontri del 15 ottobre. Forse spagnoli, americani e cileni ci stanno riuscendo.
Tre week end, tre appuntamenti: la settimana scorsa ero all’Arco della Pace con Libertà e Giustizia, ho condiviso molto di quanto è stato detto da più oratori, ma non posso dire che sia il mio ambiente. Sabato ero a Roma col movimento degli indignati. Il 22 e 23 li passerò in un seminario dei Comitati per Milano sui temi della partecipazione democratica alla vita cittadina, dopo la primavera che ha portato all’elezione di Pisapia. Io faccio tutto… o quasi. Intendo dire che, rischiando forse di disperdermi, voglio aggregarmi laddove ci sono embrioni di futuro, situazioni che mi sembrano politicamente generative, appelli mobilitanti, interlocutori autorevoli da sostenere, piccole e grandi azioni per influenzare i cambiamenti. È un tentativo di fare politica fuori dai recinti più consolidati dei gruppi e dei partiti. È anche un modesto contributo e costruire ponti tra le diverse esperienze. Credo che nelle vie di Roma sabato e in tutta Italia ci sia sempre più gente che non è con o di, ma fa politica e vuole esserci, contare, farsi ascoltare. Non è antipolitica o prepolitica o confusione: è qualcosa di diverso, ha limiti e qualità, ma non è e non deve essere considerato di serie B.

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