30.10.11

Intervento al congresso della Rete degli Studenti Medi

Si riporta di seguito l'intervento inviato al Congresso della Rete degli Studenti Medi Macerata, tenutosi ieri all'Arci alla presenza di una quarantina di ragazz@. Ringraziando di nuovo gli/le amic@ della Rete per l'invito, auguriamo loro un buon lavoro, con passione e desiderio di cambiare e migliorare la nostra società, partendo dalla scuola!!!


Car@ compagn@,
vi ringrazio per aver invitato LGS Macerata a portare un saluto al vostro congresso fondativo.
Mi scuso per l'assenza, ma come qualcuno sa sono a casa con l'influenza e non mi hanno potuto sostituire.

Non è possibile negare una certa emozione nel sapervi riuniti nell'atto fondativo di un sindacato studentesco che nasce da un percorso che abbiamo costruito tutti assieme in città e nelle scuole. Cominciando con il grande momento di autoformazione all'Università il 6 ottobre 2010, proseguendo con la grandiosa manifestazione dell'8 ottobre e le assemblee d'istituto fatte, e poi con la pubblicazione e divulgazione del primo giornalino scolastico della città di Macerata: il Picchio. La vostra presenza qui (sicuramente numerosa), la decisione di formalizzare e dare il definitivo VIA alla formazione del sindacato degli studenti medi, non fa che confermare che quanto si è costruito in questi mesi ha dato grandi frutti.

LGS, come associazione cittadina e collettivo di precari, studenti e universitari, ha come obiettivo quello di costruire reti nella nostra città, fedele a quella pratica GLOCALE che dice: pensare globalmente per agire localmente.
Quindi, dove si aprono spazi di riflessione critica autonoma, dove persone, giovani e soggetti deboli della società si incontrano per discutere, risolvere problemi e lavorare per una società migliore, più equa e giusta, noi siamo con loro. A maggior ragione, ha il nostro sostegno e il nostro appoggio una realtà come quella della Rete degli Studenti Medi con cui è stato possibile collaborare e che siamo convinti darà nuova linfa all'azione politica autogestita e autonoma all'interno delle scuole. Fin dalla splendida manifestazione del 7 ottobre di quest'anno, il nostro supporto è totale.
L'augurio più grande è che la comunità che state costruendo viva democraticamente, attorno al confronto ed all'autogestione: la vera democrazia c'è quando si decide assieme, dal basso verso l'alto.

Ci aspettano, oggi ancora di più, mesi molto difficili: la precarizzazione della vita va di pari passo con il peggioramento delle condizioni delle scuole, con la privatizzazione degli atenei e la distruzione dei beni comuni. Sarà possibile rEsistere soltanto con un lavoro collettivo e con la creazione di risposte concrete condivise: una scuola diversa è possibile se ci riappropriamo dei suoi spazi, se recuperiamo le assemblee come luogo di contro-cultura, le settimane culturali come momenti di auto-formazione, i diritti come orizzonte insormontabile. La scuola è di chi la abita, e di nessun altro.
Così contrasteremo chiunque ci vuole solo e soltanto automi dentro un sistema che non gestiamo noi.
Con queste riflessioni, che sicuramente condividono tutt@ coloro che prendono parte al LGS, vi auguro buoni lavori e vi abbraccio vivamente.

Con un pizzico di emozione

Stefano – Laboratorio Giovanile Sociale

28.10.11

Vittorio Agnoletto: video e resoconti.



Il racconto di Gabriele Censi, di Cronache Maceratesi.

“Ma chi te lo fa fare a scrivere un libro così? Consigli sono venuti da molte parti anche non vicine, mi ha chiesto un appuntamento a Roma per parlarmi un nome importante dell’apparato dei servizi, ma nel luogo poco riservato dove ci siamo incontrati ha detto di non avere nulla da dirmi. Solo questo consiglio. Oltre ad un informazione molto significativa: seppure ci eravamo parlati al telefono solo una volta pochi giorni prima risultavano alcune chiamate tra di noi anche nel passato…”. Questo ed altri agghiaccianti aneddoti racconta per due ore di fila, ai giovani che hanno riempito l’aula di Filosofia dell’Università di Macerata, Vittorio Agnoletto, leader del movimento No-Global, ’quello del G8 di Genova’, dieci anni dopo. Un Libro scritto con un altro che quei giorni li ha vissuti: Lorenzo Guadagnucci, giornalista del Carlino, uscito con le ossa rotte dalla Scuola Diaz di Genova. Un resoconto di dieci anni di ricerca della verità, “una verità che oggi è appurata, salvo che per la morte di Carlo Giuliani, e nonostante i tanti tentativi di fermare le inchieste, ma una verità a cui non corrisponde giustizia. Ci sono degli intoccabili e stanno ai vertici delle istituzioni. Intitolando questa ricostruzione documentata dei fatti, da allora ad oggi, “Eclisse della democrazia” rispondo alla domanda ‘chi me lo ha fatto fare’: credo che questo stato di cose sia un oscuramento dei diritti solo temporaneo come un’eclisse, un mondo diverso è possibile e quello che il movimento diceva 10 anni fa, gli allarmi climatici e la non sostenibilità di questa economia, trovano risposte chiare in quel che è accaduto dopo, nel 2001 il 20 % della popolazione controllava l’80% delle risorse, oggi l’8,7% ne controlla l’82% ! Ed anche se provano a censurare l’informazione, alla conferenza stampa di presentazione del libro c’era solo la Radio Svizzera…, oggi la comunicazione passa comunque grazie ad internet”
Tanti e attenti gli studenti che hanno ascoltato Vittorio Agnoletto, introdotto da Natascia Mattucci, ricercatrice di Filosofia Politica dell’Università di Macerata, e moderato da Francesco Rocchetti, ricercatore dell’Istituto Storico della Resistenza di Macerata. L’iniziativa è stata organizzata dal Laboratorio Giovanile Sociale di Macerata: “Uno stimolante e partecipato incontro in un luogo simbolo per noi, là dove si sono seduti gli oratori è iniziata l’occupazione universitaria un anno fa”.

27.10.11

Splendido incontro con Vittorio Agnoletto

Si è appena concluso l'incontro con Vittorio Agnoletto che abbiamo organizzato presso la Facoltà di Filosofia: Violenza di Stato, con presentazione del libro "Eclisse della democrazia". Hanno dialogato con lui Francesco Rocchetti e Natascia Mattucci, alla presenza di molte decine di persone.
In attesa di condividere filmati e fotografie, ringraziamo chi ha collaborato con noi e reso possibile un evento che sicuramente arricchisce la riflessione cittadina e del Laboratorio attorno alla necessità di "un altro mondo possibile" con un'azione sempre glocale. Inoltre, quanto accaduto a Genova rimane un punto di riferimento importante, la cui gravità resta iscritta nella storia del nostro Paese, e ci spinge a ricercare forme d'azione e informazione in grado di mettere a nudo le violenze del potere.

22.10.11

Eventi:Vittorio Agnoletto a Macerata sulla VIOLENZA DI STATO

LGS Macerata organizza

VIOLENZA DI STATO:
Macerata – AULA A, Facoltà di Filosofia - C.so Garibaldi, 20
ORE 17,30

Vittorio Agnoletto
portavoce del movimento NoGlobal a Genova 2001
autore di Eclisse della Democrazia, libro dedicato alle violenze del G8

Natascia Mattucci
ricercatrice di Filosofia Politica UniMc
studiosa di Michel Foucault e dei sistemi di controllo e coercizione

modera

Francesco Rocchetti
ricercatore Istituto Storico della Resistenza MC

Ci sarà la possibilità di acquistare libri con la collaborazione di Feltrinelli

Nel luglio 2001 il grande e plurale movimento NoGlobal, impegnato nella critica del sistema capitalistico e delle politiche neoliberali, scende in piazza a Genova per il controvertice del G8, che si sta tenendo in quei giorni nella città ligure alla presenza dei capi di Stato delle potenze mondiali.
Il secondo e terzo giorno, però, sono teatro di scontri di piazza che portano, il 20 luglio, alla morte di Carlo Giuliani, sparato da un poliziotto durante gli scontri di Piazza Alimonda.

Cosa è successo in quei giorni? Come lo Stato ha fatto uso di misure repressive e violente contro i manifestanti?
Ma soprattutto, in che modo lo Stato utilizza oggi il monopolio della violenza? Come collegare i divieti di manifestare con l'esclusione dei migranti, le forme di controllo nelle scuole e nelle carceri con le nuove pratiche di esclusione ed emarginazione? Come decostruire l'immaginario della violenza?

Allo stesso tempo, oggi si ricompone un grandissimo movimento sociale, che attraverso la vittoria del referendum e la nuova esperienza di Napoli, le grandi mobilitazioni mondiali degli "indignati" contro il debito e le banche, chiede e propone un nuovo modello economico e sociale fondato sui beni comuni, la democrazia diretta e la gestione collettiva delle risorse e della produzione.
L'enorme manifestazione del 15 ottobre scorso ci interroga inoltre sulle forme della protesta e le modalità per costruire, e praticare, una politica (e una pedagogia) alternativa, del vivere comunitario, attorno ai beni comuni e ad una nuova democrazia sostanziale, per un nuovo modello economico e sociale.

Se ne discuterà GIOVEDI 27 OTTOBRE, nell'AULA A della FACOLTA' DI FILOSOFIA, in C.so Garibaldi:

Io, in movimento fuori dai recinti. E dagli scontri.


di BARBARA DI TOMMASO
Da Il Manifesto di mercoledì 19 ottobre
Il capitalismo è capitolato: uno dei tanti cartelli di produzione personale innalzati a Roma recitava così. Già… e dopo? In fondo ci eravamo abituati, pur criticandolo, a questo sistema, ci pareva di conoscerlo (lo sottovalutavamo), ma ora che è in una crisi irreversibile per eccesso di voracità cosa immaginiamo? Cosa possiamo creare per il “dopo” in questo difficile “durante”? La suggestione del benecomunismo proposta da Zizek, praticata al Teatro Valle e nei comitati per l’acqua mi stuzzica, avrei voglia di approfondirla e progettare in quella direzione. Ma chi ci sta? O ci aspettiamo da qualcuno la magica ricetta di uscita dalla crisi con un cambio di maggioranza di governo, qualche taglio più digeribile (le spese militari, per dirne una), un nuovo gruppo di parlamentari più presentabile? Bisogna inventare, pensare, provarci, proporre, ci serve intelligenza perché la svolta è davvero epocale. Ci serve non avere paura di un nuovo mondo che in effetti non sappiamo come potrà essere. Ma come vorremmo che fosse?
Roma 15 ottobre: fino ad un certo punto è stato l’energia e la sfacciataggine stile gay pride, l’ironia dei comitati che hanno fatto eleggere Pisapia, la creatività dei lavoratori della conoscenza e dello spettacolo, la rabbia dignitosa di chi ha perso il lavoro o lo ha precario, la bellezza della varietà: tutti in cammino assieme perché così proprio non va. In quasi 35 anni di cortei e iniziative non ho mai smesso di stupirmi e incuriosirmi per come siamo diversi, ma simili; ripetitivi, ma originali; gli stessi di sempre e i nuovi di oggi. A Roma c’erano decine di migliaia di persone non rassegnate, il Capitale Sociale di questo paese, ognuno con le sue qualità e tanti limiti. Non spariranno domani, torneranno a lavorare nei quartieri, nella scuola, nei luoghi di partecipazione, in alcuni sindacati, e ci si riconvocherà presto, è sicuro. In Italia e nel mondo. È una bella occasione e una grande responsabilità essere potenzialmente la maggioranza nel pianeta! Non vanno sprecate.
Black bloc. I soliti noti. Fanno tristemente parte delle possibilità da mettere in conto quando ci si mobilita in Italia. Vogliamo essere radicali negli obiettivi e nelle forme della lotta senza essere inutilmente distruttivi, per cui vanno scelte altre modalità di mobilitazione, che spiazzino (nel senso letterale: fuori dalla piazza!) per primi costoro, che li costringano a chiedersi se vogliono fare come a Tottenham (qualcuno si chiede cosa è restato di quel terribile fuoco di paglia estivo?) o entrare in dialogo con altri cittadini e movimenti, su obiettivi da perseguire con caparbietà e coerenza. Il sit-in, il boicottaggio continuo, flash mob periodici e coordinati, l’accampamento in luoghi nevralgici, lo sciopero delle città (perché non tutti hanno un lavoro e quindi l’astensione tradizionale non basta più), penso possano avere meno appeal per chi cerca lo scontro con la copertura del corteo e consentano poco di aggregare chi si fa tentare dalla via militare (e maschile) per fare opposizione. Nulla è risolutivo, nulla è a costo zero, nessuna modalità di lotta è dura e pura, ma c’è una qualità del far politica che va preservata e una necessità di proteggere il movimento da paralisi, depressione, paura, soprattutto dopo quello che è successo a Roma. E che ha compromesso per molto tempo il dopo Genova. Vogliamo imparare dalla nostra storia ed esperienza? Non si tratta (solo) di condannare i violenti, si tratta di dire che noi facciamo e forse vogliamo un’altra cosa, siamo da un’altra parte. Poi coi ragazzi delle tifoserie, coi desperados delle periferie, coi militarizzati del blocco nero io ci vorrei pure parlare… ma senza confondermi nel momento della protesta e senza far degenerare le nostre iniziative causa loro. Diciamo no al blocco nero del pensiero e dell’azione che si impossessa di noi.
Il movimento è disorganizzato. Certo, e deve essere in parte così. Nonostante la gratitudine per chi come la Fiom ed altri mettono a disposizione le proprie forze e competenze, non sono d’accordo con quanti evocavano i servizi d’ordine per respingere “i facinorosi”. Ci abbiamo provati tutti a metterli fuori dal corteo, qualcuno è stato in grado di farlo più efficacemente perché più intruppato, esperto, organizzato, maschio. Qualcuno/a ha rischiato perché a mani nude contro bastoni, muscoli, bottiglie e caschi. Ma questo movimento è e deve restare abitato da pensionati, donne, bambini piccoli, disabili in carrozzina, signore con la borsa della spesa. Tutti più o meno sciolti, in un’autorappresentazione collettiva unica, ciascuno col suo cartello o striscione o simbolo. Non so se è movimento o moltitudine o altro, io la chiamerò cittadinanza attiva e diffusa, organizzabile fino ad un certo punto, perché si autoorganizza su obiettivi e campagne di volta in volta, non scegliendo necessariamente appartenenze organizzative stabili, ma partecipazioni mirate e temporanee. Organizziamoci quel tanto che basta per fare massa critica ogni tanto, senza rimpianti per i bei tempi andati dei servizi d’ordine o delle sigle. Riferiamoci e siamo grati alle diverse organizzazioni che scelgono di stare nel movimento senza cercare di cavalcarlo, aggregando, ascoltando, proponendosi, mettendosi a fianco e insieme.
Solo in Italia gli scontri. Vero, interessante. Ricordiamoci però che in Francia certo disagio sociale si è ampiamente manifestato in senso distruttivo con i roghi nelle periferie, che in Inghilterra ancora cercano i responsabili delle devastazioni di questa estate, che in Grecia di scontri ce ne sono periodicamente da due anni a questa parte. A New York hanno arrestato decine di militanti presenti pacificamente nei diversi accampamenti, in Spagna stanno sperimentando forse qualcosa di diverso da cui dovremmo imparare. Insomma: ogni paese ha tradizioni politiche e della protesta sociale diverse, ci sono anche tradizioni dell’ordine pubblico e della repressione specifiche, forse noi siamo troppo ancorati a certe modalità e ritualità e forse alcuni di noi sono anche (permettetemi) un po’ pigri: accamparsi, spostarsi, rischiare arresti, tenere un obiettivo, scioperare ad oltranza, ecc.. è troppo impegnativo. Non voglio fare la moralista, ma mi pare che la fase e la posta in gioco ci richiedano maggior esposizione, come in Val Susa (turni al presidio No Tav giorno e notte a rotazione per mesi, col freddo e col caldo, con la Polizia a pochi metri e le incursioni nei campeggi), come l’anno scorso nell’occupazione di monumenti e tetti, come coi blocchi stradali o dei treni. Direi che in Italia non riusciamo ad organizzare una disobbedienza civile allargata e fatta bene, al di là degli scontri del 15 ottobre. Forse spagnoli, americani e cileni ci stanno riuscendo.
Tre week end, tre appuntamenti: la settimana scorsa ero all’Arco della Pace con Libertà e Giustizia, ho condiviso molto di quanto è stato detto da più oratori, ma non posso dire che sia il mio ambiente. Sabato ero a Roma col movimento degli indignati. Il 22 e 23 li passerò in un seminario dei Comitati per Milano sui temi della partecipazione democratica alla vita cittadina, dopo la primavera che ha portato all’elezione di Pisapia. Io faccio tutto… o quasi. Intendo dire che, rischiando forse di disperdermi, voglio aggregarmi laddove ci sono embrioni di futuro, situazioni che mi sembrano politicamente generative, appelli mobilitanti, interlocutori autorevoli da sostenere, piccole e grandi azioni per influenzare i cambiamenti. È un tentativo di fare politica fuori dai recinti più consolidati dei gruppi e dei partiti. È anche un modesto contributo e costruire ponti tra le diverse esperienze. Credo che nelle vie di Roma sabato e in tutta Italia ci sia sempre più gente che non è con o di, ma fa politica e vuole esserci, contare, farsi ascoltare. Non è antipolitica o prepolitica o confusione: è qualcosa di diverso, ha limiti e qualità, ma non è e non deve essere considerato di serie B.

18.10.11

Libri: "Beni comuni" di Ugo Mattei

Per la nostra recensione del libro vai su: http://lgsmacerata.blogspot.com/2011/12/recensione-di-beni-comuni-di-ugo-mattei.html




Tratto da Il Manifesto del 16 ottobre.


È necessario un processo costituente per immaginare la società dei beni comuni e sovvertire l'ordine costituito fondato sulla crescita capitalistica. E per scalzare sia la proprietà privata che la sovranità statuale
Un linguaggio nuovo è ciò che riduce ad unità le battaglie politiche di dimensione globale per i beni comuni che oggi si ritrovano in piazza. In Italia di queste battaglie e della produzione di questo linguaggio il manifesto è stato in questi anni protagonista, fino ad essere riconosciuto esso stesso come un bene comune. Queste battaglie, dall'acqua all'Università, dal Valle di Roma al no Tav della Val Susa, dall'opposizione ai Cie ai Gruppi azione risveglio di Catania, sono declinate in modo diverso nei diversi contesti, ma fanno parte di uno stesso decisivo processo costituente. Muta la tattica ed il suo rapporto con la legalità costituita. Resta costante la strategia costituente che immagina la società dei beni comuni. Ovunque si confrontano paradigmi che travolgono la stessa distinzione fra destra e sinistra, consentendo vittorie clamorose come quella referendaria su acqua e nucleare. Il paradigma costituito fondato su un'idea darwinista del mondo che fa della crescita e della concorrenza fra individui o comunità gerarchiche (corporation o Stati) l'essenza del reale. La visione opposta, fondata su un'idea ecologica, comunitaria solidaristica e qualitativa dello sviluppo, può trasformarsi in diritto soltanto con un nuovo processo costituente, capace di liberarsi del positivismo scientifico, politico e giuridico che caratterizza l'ordine costituito da cinque secoli a sostegno del capitalismo che ancora colonizza le menti e i linguaggi. Il modello costituito è sostenuto dalla retorica sullo sviluppo e sui modi di uscita dalla crisi, che i media capitalistici continuano a produrre, nonostante la catastrofica situazione ecologica del nostro pianeta. L'insistenza mediatica è continua e spudorata ma progressivamente meno seducente e le forze costituenti costruiscono nella prassi quotidiana un mondo nuovo e più bello.
L'ordine giuridico costituito è radicato nell'individualismo proprietario, nella sovranità dello Stato sul territorio, e nella stessa visione antropocentrica della modernità (e dell'economia politica) fondata sull'homo oeconomicus e sul survival of the fittest. L'ordine costituente vuole riportare le leggi umane in sintonia con quelle ecologiche, secondo una visione della vita come comunità di comunità, legate fra loro in una grande rete, un network di relazioni simbiotiche e mutualistiche, in cui ciascun individuo (umano o meno che sia) non può che esistere nel quadro di rapporti e di relazioni diffuse secondo modelli di reciprocità complessa.
La visione meccanicistica e positivistica, che configura l'ordine costituito come il solo reale è denunciata nelle piazze oggi perché è responsabile di aver portato il mondo sull'orlo del baratro. Ad essa opponiamo una costituente ecologica, collocando al centro la solidarietà, la bellezza, l'immaginazione e la liberazione dal lavoro alienato. L'individuo solitario, la competizione, la meritocrazia e l'uso della tecnica a fini di sfruttamento sono smascherate oggi come l'ideologia letale che legittima la diseguaglianza e l'accumulo senza fine. Se infatti l'individuo solo in natura soccombe, la sua costruzione teorica e la sua spettacolarizzazione sono funzionali alle esigenze di breve periodo dello sfruttamento. L'individuo, reso solo, narcisistico e desideroso di consumare, trova nelle merci e nel rapporto contrattuale il proprio principale orizzonte relazionale. Una condizione umana miserabile che ancora vive della distruzione dei beni comuni e che oggi con gioia e rabbia insieme rifiutiamo.
L'emersione del linguaggio dei beni comuni e la loro riconquista va quindi compresa nell'ambito di uno scontro politico epistemologico e anche psicologico profondo fra due visioni del mondo. Uno scontro che va tradotto in una prassi politica costituente capace di far trionfare a livello globale in tempi estremamente ridotti la sola concezione scientifica compatibile con il mantenimento e l'adattamento di lungo periodo della vita sul nostro pianeta. Si tratta perciò di predisporre un'alternativa, politica e culturale, che sappia scalzare tanto la proprietà privata quanto la sovranità statuale dal ruolo di pietre angolari dell'organizzazione politica costituita. Ciò è possibile solamente mettendo al centro il comune, ossia riconoscendo la primazia della distribuzione sulla creazione di ricchezza, della qualità delle relazioni sulla quantità del capitale, della bellezza sull'osceno. Poiché gli attuali rapporti di forza fra proprietà privata (corporation) e Stato rendono quest'ultimo succube della prima, la battaglia non può limitarsi a strategie costituite. Esse possono soltanto essere tattica, ancorché talvolta vincente come ha dimostrato la battaglia referendaria condotta ex art. 75 Costituzione.
Ridefinire i confini costituzionali dello Stato e allo stesso tempo quelli del profitto e della rendita, secondo un'idea di "meno Stato, meno proprietà privata, più comune" è prassi costituente necessaria che rifiuta oggi le condizioni di realtà create dal dominio e dalla concentrazione del potere. Stiamo costruendo oggi una società ecologicamente sostenibile, coerente con le nostre attuali conoscenze sulla fenomenologia del reale.
In questo quadro teorico lottare per un'entità (acqua, università, culturale, rendita fondiaria, lavoro, informazione) come bene comune al fine del suo governo politico-ecologico è una prima radicale inversione di rotta rispetto al trend della privatizzazione e del saccheggio. Ciò tuttavia non può essere circoscritto dalle condizioni costituite che comporterebbero un ritorno del potere nelle mani di un settore pubblico burocratico, autoritario o colluso. La tattica è dunque istituzionalizzare un governo partecipato dei beni comuni capace di restituirli alle «comunità di utenti e di lavoratori» secondo il fraseggio della nostra Costituzione (art. 43), ma la strategia non può che essere costituente, per immaginare cominciando a viverlo da subito, un mondo più bello in cui i beni comuni sono goduti secondo criteri di accesso, di rispetto, di uguaglianza sostanziale, di necessità e di condivisione.

17.10.11

Uno sguardo sul 15 ottobre

Una giornata che ha portato in piazza le rivendicazioni di una generazione colpita al cuore, inascoltata, derisa.
Una giornata che ha dato voce agli operai i cui diritti sono stati debellati, ai cassintegrati, agli insegnati precari, agli studenti, ai disoccupati, a tutti i cittadini stanchi di vedersi umiliare da un governo sordo e autoreferenziale che colpisce lo stato sociale, l’istruzione e il lavoro.
Una giornata in cui l’indignazione condivisa si è fatta concreta, si è fatta conflitto e ha scatenato una risposta generale alle politiche liberiste della Banca Centrale Europea.
Quella risposta che non si vede realizzata nella violenza, nello scontro fisico ma che nasce dalle violenze e dai soprusi subiti nei luoghi di lavoro, nelle scuole, nelle università, nella vita.
Una risposta che nasce dall’oppressione esercitata dalle logiche del profitto, dall’impossibilità di trovare un lavoro o di lavorare in condizioni che rispettino la dignità umana e tutelino la persona.
In quella giornata ho visto un popolo stanco di subire privazioni e ricatti, di sostenere il peso di una crisi, figlia delle logiche liberiste, di una politica che colpisce i più deboli, di un sistema economico che vuole reggersi sui sacrifici della classe lavoratrice, degli studenti, dei precari.
Doveva essere una data di mobilitazione pacifica e allo stesso tempo pregna di contenuti radicali.
Un momento di lotta per ribadire la necessità di un sistema economico e sociale alternativo, del lavoro come strumento di emancipazione, di una società fondata sulla conoscenza.
Gli scontri non sono un parto di queste rivendicazioni, dei processi democratici che hanno portato alla nascita della manifestazione, sono figli dell’idiozia, della teatralità di gruppi esterni a quel clima.
L’unica cosa che vorrei dire a riguardo è che non saranno loro a delegittimare quella manifestazione e il risultato che comunque ha ottenuto, ovviamente è doveroso fare autocritica e riprendere in mano le redini della questione.
Tuttavia fare un’analisi sulla violenza di quel giorno non mi interessa, voglio parlare della manifestazione che è partita da piazza della Repubblica fino al Circo Massimo, degli studenti che sono tornati in corteo fino alla Sapienza.
Voglio parlare dei contenuti di chi crede che costruire l’alternativa è possibile  partendo dal lavoro, dai diritti, dalla lotta alla precarietà, dalla cultura e dai saperi, facendo pagare i più ricchi, combattendo l’evasione fiscale, reinvestendo nel settore pubblico in difesa dei beni comuni, con la partecipazione del pubblico in economia, tagliando le spese militari e i finanziamenti alle imprese, lottando contro la criminalità organizzata, per la giustizia sociale.
Io sto con l’Italia e con l’Europa che vuole cambiare stando dalla parte di chi ogni giorno lotta nei posti di lavoro, nelle scuole, nelle università, di chi fa cultura e produce capacità critica e tenta di far germogliare quella coscienza che permette agli individui di riappropriarsi del proprio futuro cessando di essere subalterni e costruendo giorno dopo giorno una società diversa.


Francesco Interlenghi
(ringrazio un'anziana signora che in metropolitana mi ha fatto riflettere)

15 ottobre, riflessioni di un poliziotto


Dopo la difficile giornata di ieri e una notte che avrebbe dovuto portare consiglio al risveglio mi trovo con le stesse convinzioni di ieri: in piazza San Giovanni è stata sconfitta la democrazia.
La rete mette a disposizione materiale su quello che è accaduto ieri, c’è l’imbarazzo della scelta: ci sono i violenti che devastano (minoranza) e le persone pacifiche (la maggioranza) che manifestavano e che cercavano addirittura di fermare i violenti. La condanna delle forme di violenza è alla base della civiltà e della convivenza e questo è il primo punto fermo; il secondo è la libertà di espressione e di manifestare nel rispetto della leggi, questo purtroppo non è avvenuto e la responsabilità va attribuita allo Stato che attraverso le sue Istituzioni non è riuscito a garantire lo svolgimento di una manifestazione. Che senso ha criminalizzare il movimentismo? Chiedergli l’isolamento dei violenti? Il movimento esprime disagi, rappresenta problematiche che una classa politica vera ascolterebbe per trovare soluzioni attraverso soluzioni legislative.  Il male superiore diventano le persone che scendono in piazza o quelli che approfittano di questi eventi per mettere in pratica violenze e devastazioni? Si rischia di trasformare le vittime in carnefici se si generalizza in modo superficiale. Perché le Istituzioni non riconoscono di aver fallito? L’ordine Pubblico di ieri è stato fallimentare e ha segnato una sconfitta per tutti noi.
Ieri se non fossi stato di servizio avrei partecipato con mio figlio, qualcuno forse può darmi del violento o tacciarmi per uno che non contrasta la violenza?
La città era blindata, gli uffici periferici praticamente chiusi per aver fornito uomini e mezzi all’emergenza della capitale e il risultato è sotto gli occhi di tutti; che l’apparato della sicurezza non ha funzionato è evidente come il fallimento di una sistema che si limita a blindare senza prevenire.
I modelli di ordine pubblico non si creano con un giorno ma se per anni si svuotano di significato gli apparati investigativi (con tagli o continui prelievi per pattuglioni e ordine pubblicoresta solo il modello “militare” fatto di un’enorme “fanteria” dislocata per strada senza una preparazione adeguata e senza equipaggiamenti.
Ieri ero con altre decine di colleghi in piazza del parlamento, la stragrande maggioranza non aveva esperienze di Ordine Pubblico, personale preso in ogni ufficio per fronteggiare il grande evento, siamo stati schierati e pronti ad intervenire dalle 13 fino alle 22 potendo fruire del solo sacchetto vitto delle 13 e senza altro fino alle 23.00 (inizio servizio alle 11,30 e fine servizio ore 23.00), un fallimento anche dell’organizzazione interna che continua a non rispettare i lavoratori di polizia, i loro contratti e la loro dignità professionale.
Il modello “militare” era stato  applaudito in occasione del 1° Maggio  (nonostante violazioni contrattuali nei confronti dei lavoratori di polizia) e ierii invece si è dimostrato fallimentare, come lo era stato il 14 dicembre, evidentemente perché lo stesso modello non può essere applicato per il black bloc e per i pellegrini.
Oggi molti dei colleghi coinvolti negli scontri saranno nuovamente impiegati per garantire l’ordine pubblico allo stadio, ragione in più per ritenere questo modello non più accettabile anche per limiti operativi evidenziati e per la mancanza di rispetto per i lavoratori di polizia.
Noi che facciamo sindacato e conosciamo i meccanismi interni le pecche di un modello militare che è solo scenico, dove la preparazione e la professionalità sull’ordine pubblico sono subordinate alla “scenografia”. Quando poi si creano situazioni di guerriglia urbana è difficile tenere la situazione sotto controllo, se non si riesce  a prevenirle dopo diventa difficile, se non impossibile, gestirle. In altre occasioni si è bonificato il percorso, sono stati tolti i cassonetti e  sigillati i tombini proprio per prevenire incendi e la possibilità di alzare barricate.
Un modello diverso di società e un diverso modello di ordine pubblico sono alla nostra portata o resteranno un’utopia?
Lo squallore peggiore continua a fornirlo gran parte della classe politica che sta esasperando il paese con la loro politica di macelleria sociale, con manovre economiche che non intaccano ricchezze e privilegi ma affamano le persone e che si presenta in tv a commentare e strumentalizzare proteste legittime e pacifiche nella stragrande maggioranza, incapace di comprendere che alla base di tutto ci sono loro e della loro incapacità di governare nell’interesse pubblico.
Oggi proporranno inasprimenti delle pene, nuove compressioni dei diritti individuali facendo finta di non capire che la sicurezza urbana, che loro continuano a tagliare, non si esaurisce con il contrasto alla prostituzione ma passa per tutte le libertà, anche quelle di scendere in piazza per poter esprimere le proprie idee.
Mirko Carletti
*Mirko Carletti è poliziotto e sindacalista del Silp Cgil

Tratto da: 15 ottobre, riflessioni di un poliziotto | Informare per Resistere http://informarexresistere.fr/2011/10/16/15-ottobre-riflessioni-di-un-poliziotto/#ixzz1b2chCr7M - Nel tempo dell'inganno universale, dire la verità è un atto rivoluzionario! 

16.10.11

Sul 15 ottobre: La posta in gioco è una sola

Come in tutte le buone famiglie, ci confronteremo domani su ciò che è successo ieri nella Piazza di Roma, ragionando su quanto accaduto, percepito, ragionato da chi c'era e da chi non c'era alla manifestazione. 
Personalmente, propongo di seguito la riflessione di Loris Campetti sul Manifesto di oggi, che condivido in pieno e rappresenta lo spirito con cui riprendiamo, fin da subito, il nostro impegno politico. Stefano



di Loris Campetti



Cinquecento guastatori nerovestiti che scatenano la guerriglia in città non possono e non debbono far dimenticare la violenza di chi pretende di governare il mondo imponendo ai loro inservienti politici che fingono di governarlo regole antisociali, destinate a colpire le fasce più deboli e intere popolazioni in tutto il mondo. Sono vittime essi stessi, i cinquecento nerovestiti, di quella violenza globale, e reagiscono a modo loro. Né tre automobili e una ex caserma bruciati possono e debbono cancellare la determinazione e la rabbia di centinaia di migliaia di cittadine e cittadine che hanno invaso Roma a mani nude per dire che bisogna cambiare subito le regole, la politica - altro che l'antipolitica di cui in troppi cianciano - la società, la cultura. Quelli che la democrazia è partecipazione ma anche riappropriazione dei beni comuni sottratti.

Anche il futuro è sottratto, non ne possono più e vogliono riprenderselo in mano. Sono indignati, chi cercando lo scontro e riproponendo un rito stanco, nell'illusione di aggregare la rabbia di tutti, di quel 99% di cui parlano slogan e cartelli: quei cinquecento più altrettanti giovanissimi che sono riusciti a tirarsi dentro. Chi invece declinando la sua rabbia persino con ironia, come recitava un cartello divertente: «Io nun so' indignato, me rode er culo». L'opposizione sociale c'è e si vede, è fatta di mille pezzi, culture e storie diverse, di individui e movimenti, uniti da una battaglia appena iniziata contro la dittatura della finanza che impoverisce la cultura, flagella scuole, ricerca e sapere, chiude fabbriche e teatri, tenta di scatenare una guerra orizzontale tra le vittime, nell'illusione di impedire il conflitto verticale dal basso verso l'alto, verso la cupola: la Bce, l'Fmi, il Wto. Ieri a Roma l'opposizione sociale si è ripresa la parola e la città, in scena è andato chi non sta al gioco perché ha capito che è un gioco truccato. L'ha talmente capito da resistere ai caroselli senza senso e pieni di provocazione della polizia con gli idranti in piazza San Giovanni e da espellere dal corteo chi con il suo agire rischia di frenare la crescita di un movimento che non vuol farsi fermare.

Per questo l'elemento unificante della protesta è il rifiuto della lettera della Bce, rispedita in massa al mittente. Ma ha preso corpo anche il rifiuto di quel maledetto articolo 8 della manovra di Berlusconi, Tremonti e Sacconi che si mangia quel che resta della democrazia nel lavoro. Lo sanno e lo ricordano a tutti gli operai della Fiom sfilando in tantissimi con le loro bandiere accresciute dall'orgoglio di Pomigliano; ma ai draghi ribelli, agli studenti e ai precari, al popolo di Uniti per l'alternativa non hanno neanche bisogno di ricordarglielo. Venerdì prossimo tornerà la protesta a Roma con i lavoratori della Fiat che a loro volta non devono spiegare a nessuno dei manifestanti di ieri che Berlusconi è un cancro da estirpare e la medicina non può essere Marchionne, che al modello antisociale liberista ha dato corpo. Non sfileranno da soli, gli operai della Fiat, come non protesteranno da soli gli studenti, il popolo NoTav, gli ambientalisti, gli attivisti dei beni comuni. Ieri a Roma è stato ufficializzato un fidanzamento che può durare a lungo, perché lunga sarà la battaglia per dar corpo a un'alternativa capace anche di farsi politica. La parte di sinistra politica che ieri ha partecipato al corteo dovrebbe aver preso molti appunti. Almeno è quel che sperano in tanti, quelli che di deleghe in bianco non sono più disposti a darne.

Ieri sera, mentre a piazza San Giovanni continuavano gli scontri, il centro di Roma era tutto un susseguirsi e incrociarsi di cortei. Ancora verso la piazza ormai impossibile, oppure su per via Merulana fino a ritornare al punto di partenza a piazza Esedra, oppure con la Fiom fino a piazza Vittorio, e ancora con gli studenti preceduti dal camion del Valle occupato dal Colosseo al Circo Massimo, infine con Uniti per l'alternativa da San Giovanni sempre verso il Circo Massimo. Tutti questi spezzoni gridavano la stessa cosa e avevano in mente un ordine diverso da quello che toglie i soldi alle scuole, ai salari, alla cultura, all'ambiente, alle pensioni per darli alle banche.

In questa partita è in gioco il modello sociale dato e quello che si vuole costruire. A Roma come in tutte le città del mondo in cui con lingue e accenti diversi si soffre della stessa spoliazione: della democrazia e insieme del pane. A Roma questo popolo generoso ha un problema specifico che si chiama Berlusconi e una nuova ferita inferta dall'ultima compravendita di voti in Parlamento. Due mondi opposti si animano davanti ai nostri occhi: in piazza la dignità di un popolo, nei Palazzi la vergogna di un ceto blindato autoreferenziale. Il primo mondo è maturo, ha imboccato la sua strada, il secondo è marcescente. In quale dei due mondi sta la politica? Non chiedetelo a chi dice che una grande manifestazione è stata rovinata da un gruppo di irresponsabili: non è vero, la grande manifestazione c'è stata e basta e non sarà certo l'ultima. La strada è lunga, c'è tempo per crescere, e per maturare.

Immagini dalla manifestazione del 15 ottobre


Pubblichiamo di seguito le prime foto di Marco della Manifestazione di ieri. A breve riflessioni, testimonianze e considerazioni sul grande e meraviglioso corteo di ieri, sugli errori, sul futuro.


 




















14.10.11

La democrazia-wikipedia e l'altra

di Andrea Bagni, tratto da www.democraziakmzero.org


Ore 10.20, compito in classe. Uno dei temi nasce dall’assemblea dello scorso anno, durante l’occupazione. Argomento dell’incontro, più o meno, Che ce ne facciamo oggi della politica e della democrazia?
Il comitato studentesco aveva allora invitato di tutto: uno del pdl-giovani, due di Casa Pound e del Blocco studentesco; uno dei giovani pd e due del movimento “extraparlamentare”. Format televisivo: tutti maschi gli oratori, una ragazza a passare il microfono.
Questo è il mondo in cui crescono. Un recinto da spezzare, dell’immaginario. Quello del pdl parla di meritocrazia e rigore. Una ragazzina del biennio interviene dal pubblico per dire in modo buffo, timido e insieme spavaldo, Ma allora il figlio stra-bocciato di Bossi consigliere regionale, e quelle donne in parlamento che sono state prima a mostrare il culo in tivù…. Uragano di applausi. Ma il giovane berlusconiano non si scompone: io non li avrei votati ma il popolo li ha eletti, in democrazia funziona così. Quando quello di Casa Pound fa un elogio appassionato dello stato etico, che esprime la comunità e la guida, gli obiettano: ma questa è una dittatura, è tornare al tempo di Stalin (dicono proprio Stalin, non Hitler o Mussolini), non è democratico. Risposta disarmante: Beh la democrazia è quella che abbiamo d’intorno, vi sembra tanto bella, c’entra qualcosa con quello di cui abbiamo bisogno? E anche lui – che aveva già detto niente soldi alle scuole private, libri gratis per i giovani, otto per mille solo allo stato – si prende un bel po’ di applausi.
Dunque da una parte il popolo che sceglie le veline e la successione dinastica (o adesso gli imprenditori di successo, Tods o Ferrari), dall’altra la nostalgia dello Stato Padre Teologico, custode e guida forte della famiglia nazionale. Un bel disastro.
Oggi che cosa scriveranno sul foglio protocollo? Non so nemmeno io bene che pensare – dunque correggere sarà interessante.
Penso alla intervista di Cassen a proposito di Democracia real ya pubblicata su Dmk0. Penso alla primavera italiana, di movimenti e referendum e Napoli e Milano. Penso anche a questo strambo referendum sul sistema elettorale che ottiene un mare di firme in piena estate. Dovessi spiegare ai ragazzi che ho davanti la campagna contro il Porcellum in nome del ritorno al Mattarellum ci sarebbe da ridere. Gli adulti parlano una lingua tutta loro e poi si stupiscono se i ragazzi li mandano a quel paese.
Ho l’impressione che la situazione italiana sia rappresentata perfettamente in un vecchio film con Albert Finney (Quinto potere), dove qualcuno si affaccia alla finestra e urla, Sono incazzato nero e tutto questo non lo accetterò più. Gli risponde immediatamente nella città un coro di incazzati…
C’è un’Italia che non ne può più e le prova tutte. Appena trova un varco nelle istituzioni e nei media ci si tuffa. Ma che fare di questo altro vasto paese, come passare dall’urlo e dal mugugno alla liberazione della parola.
Dalla Spagna real emerge un’ipotesi radicale e affascinante – dunque all’altezza della situazione, che richiede di essere radicali e attraenti. Un modello di democrazia di base un po’ alla wikipedia. Realtà locali che producono pratiche e pensieri all’interno di una rete orizzontale che farà andare avanti quei pensieri e quelle pratiche che funzionano, trovano eco, aggregano. Il comune che si forma dalla ricchezza e dalla creatività sociale, come in un processo stocastico: qualcosa che si allarga, contagia e si consolida a livelli superiori – cioè sempre orizzontali ma più larghi; qualcosa che resta locale e non diventa decisione collettiva.
Sembra un’altra democrazia, più o meno consiliare. Fluida. Dove la rappresentanza, mi pare di capire, sale per istanze territoriali via via più larghe, legata a un mandato preciso e revocabile – non quello della nostra carta costituzionale che prevede invece l’assenza di un vincolo di mandato. Perché lo prevede? Non è scavare una distanza fra elettori e eletti?
È che non si tratta della stessa democrazia. Il modello wiki-consiliare non ha bisogno di suffragio universale e non definisce in senso proprio corpi intermedi, perché tutta la costruzione resta orizzontale. Non c’è un altro, uno stato o un parlamento, con cui costruire una intermediazione. C’è piuttosto una cessione di potere, non un passaggio con andate e ritorni. La democrazia costituzionale – quella fondata su elezioni e suffragio universale – non è integrata o alimentata ma direi sostituita. I rappresentanti, dunque, non hanno da giocare nessun altro gioco in uno spazio diverso, istituzionale, che giustifichi l’assenza di vincolo di mandato. Le istituzioni sono altre, radicate nella società, diffuse. La rappresentanza vicina e controllabile.
Penso che alle mie ragazze e ai miei ragazzi piacerebbe, ma sarebbe anche straordinariamente impegnativo. Loro si accendono ogni tanto collettivamente, ma di restare accesi costantemente direi che in genere non ne vogliono sapere. Guai cercare – almeno nella mia scuola – di rendere permanente, “istituzionalizzare”, la loro partecipazione. Tutt’al più si possono aprire spazi, creare condizioni, dare garanzie, per un’attività collettiva che riempirà quei luoghi quando arriva il momento – a volte per noi inaspettato, malgrado le tradizioni novembrine. Ho l’impressione che non sia del tutto diversa la mobilitazione della società. Da febbraio in poi aspettavamo piazze incazzate 24 ore su 24. Speravamo in una spallata dei movimenti, dei comitati, delle donne. Sono arrivate vittorie bizzarramente istituzionali: elezioni amministrative, ballottaggi, referendum. La nostra Puerta del Sol, il voto.
È che quello spagnolo a me sembra un ottimo modello per esprimere la vitalità democratica di una società, la sua dimensione costituente. Ma non sono sicuro esaurisca la sua vita e la sua struttura costituzionale. Forse mi spaventa anche l’idea di dare per morta e lasciar perdere la rappresentanza che esce dalle elezioni “una testa un voto” – anche se quella testa è oggi un notevole casino, oggetto di attenzioni interessate, target televisivo. E se non si cancella dall’orizzonte ci si deve fare i conti, non si può pensare di vivere e crescere come in una vita parallela, indifferente.
In fondo non è detto che venga fuori un disastro, anzi. Perché in questa primavera italiana c’è stato anche altro da comitati e movimenti. C’è stata un’Italia grande di singole e singoli, orfani di un po’ tutto, figli di una solitudine densamente popolata. Un’Italia civile e democratica che è partita in massa dalla mia scuola il 13 febbraio delle donne. Una cosa mai vista. Gente insospettabile di impegno politico, che usciva per andare a una manifestazione probabilmente per la prima volta nella sua vita. Quella del film di Finney. Anche di ragazze e ragazzi era piena Firenze. Roba da social forum… E poi c’è il mondo Fiom insieme a quello Zagrebelsky Ginsborg Flores d’Arcais; insieme al popolo viola, l’ex noBday, il 16 ottobre. C’è insomma anche una società che in nome della democrazia è capace di non accettare il comando “naturalizzato” della Fiat o della Bce. Allora le questioni istituzionali, anche la cultura liberal-democratica stile Micromega o Libertà e Giustizia, sono qualcosa con cui dialogare.
Oggi, forse, c’è una divaricazione così radicale del capitalismo dalla democrazia che si possono trovare consonanze con mondi che non vengono per niente dall’anticapitalismo. L’esigenza di confrontarsi, trovare mediazioni e terreni comuni non vale solo per la rappresentanza politica “condannata” a compromessi: vale anche per la società civile e politica, e chiede di inventare e praticare linguaggi inclusivi, per creare spazi pubblici di confronto. Una rivoluzione anche per noi stessi, intima come tutte le rivoluzioni significative.
È chiaro che la democrazia costituzionale ha bisogno di nuovi anticorpi e corpi intermedi. E che deve ripensare la dimensione della partecipazione. Non come tecnica amministrativa, strategia di copertura per decisioni prese altrove (vedi la Firenze di Renzi). Come una diffusa agorà in cui ritrovare la dimensione esistenziale della politica. Di sicuro non possono più essere i partiti i luoghi della connessione, né quelli di oggi, comitati elettorali per yesman e business class, né quelli di un tempo, organizzati a somiglianza degli stati e degli eserciti. La sfera delle decisioni va allargata e abbassata, come si è allargata e abbassata la sfera delle competenze. E quel modello wiki-polis dei movimenti deve in qualche modo contagiare i soggetti politici nuovi, che non possono essere gerarchici, piramidali, di professionisti. Ma la società è più larga e complessa della somma degli individui, così come della somma dei comitati. E lo spazio della mediazione e del confronto, la definizione delle regole, resta fondamentale. Io tutto questo lo chiamo ancora democrazia costituzionale, nel senso in cui in un saggio di molti anni fa usava il termine Pietro Scoppola: non la definizione di un risultato da raggiungere di cui la democrazia sarebbe lo strumento – la Rivoluzione o l’Ordine salvifico divino -, ma l’accordo fra diverse/i intorno a un processo da garantire di liberazione permanente. Un processo senza garanzia di prodotto, nel quale conta la qualità dello spazio discorsivo, attraversato da corpi fluidi e “sessuati”, rappresentanza e autorappresentazione.
La liberazione resta un processo permanente, ma tutt’altro che lineare.
Più di una società rivoluzionata è interessante una società rivoluzionaria.
E adesso ricreazione.