13.10.10

Troppo vero per essere dimenticato

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Aboud, 12 ottobre 2010 - Una delle cose che si scoprono viaggiando tra Israele e i Territori occupati è che, come per quegli ebrei che hanno alle spalle l’assurdo dramma della shoà, anche dietro ogni palestinese si scopra una tragedia e come dietro ogni pietra si nasconda una storia drammatica.

Uno degli elementi fondamentali per comprendere la situazione Israelo-palestinese è quello storico, aspetto di cui generalmente si conosce molto poco. Nell’immediato dopoguerra, negli anni in cui lo stato israeliano, tutt’ora senza confini né costituzione definiti, creava una nazione ispirata a modelli occidentali, si affermava quella che poi diventerà la versione ufficiale sulle vicende che diedero vita a Israele. Difficilmente la realtà dei fatti così come si sono svolti avrebbe potuto essere accolta positivamente dall’opinione pubblica mondiale, risultando dura da accettare persino da quella moltitudine di ebrei che anche in buona fede andavano occupando quella che non era certo «una terra senza popolo per un popolo senza terra». Si trattava invece di una regione che non cessò mai di essere abitata, un territorio che, oltre a essere ricco di memoria, era anche la terra delle popolazioni semitiche da sempre presenti nella zona con le loro greggi, le loro attività artigianali, le loro colture, culture e religioni ebraica, cristiana, islamica.

Il mito di una nazione israeliana che si va costruendo pacificamente, vedendosi poi costretta a imbracciare le armi per difendersi da attacchi da parte degli arabi tali da minacciarne l’esistenza, non è sostenibile sulla base dei documenti che, sempre più numerosi, è possibile consultare. La realtà dei fatti che avvennero allora viene confermata dalle testimonianze di chi, tutt’ora vivente, venne cacciato da uno dei circa 600 villaggi arabi sfollati e distrutti dall’avanzata dell’esercito israeliano, in quello che da sessant’anni è l’ex territorio della Palestina. Alla ricostruzione della realtà dei fatti danno inoltre il loro contributo persino ex combattenti israeliani, con i racconti dei loro ricordi, di quando portavano avanti la guerra di conquista di quello che divennero le terre dell’attuale Israele.

E’ nota la storia degli oltre 700.000 profughi palestinesi del 1948, presente nei documenti dell’ONU che dovette gestirne l’esodo, testimoniata anche dalle immagini che ritraggono una miriade di uomini, donne, vecchi e bambini in fuga, assieme ai pochi oggetti che erano riusciti a salvare prima di lasciare i propri villaggi. Tutta gente che verrà smistata nei tanti campi profughi, i quali sono ancora lì proprio a testimonianza storica di ciò che il popolo palestinese chiama la Nakba, la catastrofe. E la memoria è fisicamente visibile nei campi, appunto, dove i nomi delle strade richiamano simbolicamente i nomi dei villaggi da cui provengono le famiglie che abitano lì ormai da più generazioni. A volte questi stessi nomi sono scritti su segnavia nonostante che seguendone le indicazioni non si giungerebbe più ad alcun abitato.

Molto meno nota è la vicenda parallela dei profughi rimasti nello stesso periodo all’interno di Israele, degli arabo-israeliani, musulmani e cristiani, i quali sono tuttora in grado di accompagnarvi nei luoghi che i loro padri, i loro nonni hanno dovuto abbandonare tra la fine degli anni ’40 e l’inizio degli anni ’50 o persino più tardi. Come è accaduto per il villaggio di Saffran, sgombrato nel 1957 nel giro di due giorni e quindi coperto, come sempre in questi casi, da un bosco piantato di proposito con la doppia finalità di cancellare la memoria e impedire un recupero abitativo dell’area, e ai cui margini sorge ora la località ebraica di Zappori. Ma le rovine dell’abitato arabo sono ancora visibili tra gli alberi e gli arbusti, nei luoghi dove ci hanno accompagnato i “profughi interni”, deportati in una Nazareth che passò all’improvviso da dieci a trentamila abitanti (alcuni, tra i vecchi, hanno ancora il documento che testimonia la loro nascita a Saffran!), e in cui tuttora il 75% della popolazione è costituita dai profughi e dai loro figli, mentre gran parte delle terre di chi lì viveva sono state confiscate per l’edificazione di Nazareth Illit, una zona residenziale che è ormai tre volte più estesa della città originaria, oggi ai suoi piedi.
Bisogna andare lungo i confini di boschi innaturali e cercare le pietre vive, e ascoltare i loro ricordi.

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