19.10.10

Landini: è giusto ribellarsi contro questa società.

Ecco il discorso integrale tenuto dal segretario della FIOM Landini in occasione della manifestazione nazionale del 16 ottobre a Roma.

Vedere questa bellissima piazza dà davvero tanta felicità, ma allo stesso tempo indica una speranza. È anche una piazza che indica una forza; soprattutto è una piazza che unisce questo paese e che parla al paese. Dice cioè che per uscire dalla gravissima crisi che stiamo vivendo c'è bisogno di rimettere al centro il lavoro, i diritti. E che per questa ragione è necessario contrastare la politica che il governo sta facendo ed è necessario contrastare la politica che Confindustria, in questo paese, insieme a Federmeccanica, sta facendo.
Perché il punto di fondo da cui ripartire sono le ragioni per cui si è determinata questa crisi. Noi siamo in presenza del fatto che per 20 anni ci hanno raccontato che era sufficiente «lasciare fare al mercato e tutto sarebbe andato a posto». E dopo 20 anni noi siamo di fronte al fatto che la finanza non ha alcuna regola, anzi la politica e gli stati sono al servizio della finanza. Siamo in presenza di un'evasione fiscale che non ha precedenti, tutta a danno dei lavoratori dipendenti. Siamo in presenza di una precarietà nel lavoro che non ha mai avuto una dimensione come quella che stiamo vivendo. Siamo di fronte al fatto che c'è stata una redistribuzione della ricchezza a danno di chi lavora che non ha precedenti.
Vedete, quando si lavora e si è poveri, siamo di fronte non solo a un'ingiustizia, ma al fatto evidente che una società così non è accettabile e che noi dobbiamo ribellarci per cambiarla. E dobbiamo dire con forza che, proprio per queste ragioni, uscire da questa crisi richiede dei cambiamenti.
In tanti ci descrivono semplicemente come quelli che sono capaci di dire solo «no». E' vero. Noi alla Fiat abbiamo detto «no», alla Federmeccanica abbiamo detto «no». Perché quando si vuole cancellare i diritti, quando si vuole cancellare il contratto, quando si vuole cancellare la dignità delle perone che lavorano, noi diremo sempre di «no». Non accetteremo mai che questa sia la strada per cambiare la situazione.
Ma vorrei ricordare a queste persone che noi, invece, avanziamo delle proposte per cambiare questa situazione. Noi vogliamo un altro modello di sviluppo. Vogliamo cioè ridiscutere cosa si produce; che ciò che si produce sia ambientalmente sostenibile; vogliamo che i beni comuni di questo paese siano difesi, che non siano privatizzati; vogliamo cancellare la precarietà, redistribuire la ricchezza e aumentare i salari; vogliamo estendere i diritti a chi non ce li ha. Ossia, ai giovani che oggi hanno di fronte nessun futuro; solo la prospettiva di essere precari per tutta la vita.
Noi non accettiamo questa cosa, la vogliamo cambiare. E vogliamo anche che la scuola sia un diritto pubblico, che sia possibile unire il lavoro, i diritti, il sapere, e vogliamo anche che sia estesa la democrazia.
Vedete, in questi giorni tanti hanno parlato. I ministri addirittura hanno fatto a gara a raccontare chissà cosa sarebbe successo oggi. Io credo si debbano vergognare per quel che hanno detto. Perché quando si arriva addirittura ad invocare il morto, come un ministro ha fatto, siamo di fronte a una irresponsabilità totale.
Ma questa piazza ... questa piazza ha la forza di dire che non solo questa è una manifestazione democratica e pacifica, ma vorremmo ricordare che se c'è la democrazia in questo paese è perché chi lavora l'ha conquistata e l'ha estesa. E se questi ministri possono dire anche le castronerie che ogni tanto dicono è perché siamo noi che garantiamo il diritto democratico a tutti di poter parlare e di poter dire il loro pensiero.
Se ci pensate un attimo... i processi di globalizzazione che in questi anni ci sono stati hanno proprio nella democrazia il loro limite, hanno paura della democrazia, hanno paura della trasparenza, hanno paura ­ cioè ­ che le persone possano sapere quello che avviene e possono decidere.
Noi siamo di fronte ad una crisi gravissima come non abbiamo mai vissuto; sta mettendo a rischio migliaia di posti di lavoro. Nonostante ci raccontino che dovremmo stare tranquilli e che va tutto bene, noi sappiamo perfettamente che così non è. Anzi, se nei prossimi mesi non c'è un cambiamento radicale delle politiche industriali, rischiamo di essere di fronte a ulteriori chiusure, alla fine della casa integrazione, a migliaia di posti che vanno persi; alla disoccupazione.
Ma è questo il punto di novità. Si sta cominciando a capire che è proprio questo turbocapitalismo che divora tutto, senza curarsi del domani, che rischia di consumare il presente senza un'idea del futuro; e quindi abbiamo davvero la necessità di produrre un cambiamento.
Il governo e Confindustria stanno usando questa crisi perché vorrebbero cambiare gli assetti sociali e di potere. Del resto è un po' che lo stanno facendo. Già nel 2001, con il Libro Bianco dell'allora ministro Maroni, il centrodestra e la Confindustria avevano disegnato quello che volevano fare; e oggi stanno cercando di fare esattamente quello che avevano detto allora. L'attacco alla scuola pubblica, il blocco dei contratti, la cancellazione della contrattazione, la cancellazione della democrazia nei luoghi di lavoro, il superamento del diritto a contrattare, l'assenza totale di una politica industriale che fa arretrare questo paese, sono parte di uno stesso disegno.
Ma noi l'abbiamo capito; e proprio per questo vogliamo cambiare la situazione. Vogliamo mettere in campo un'azione che non si esaurisce oggi, ma che sia in grado di cambiare nelle fabbriche, nel territorio, questa situazione.
Ne hanno dette di tutti i colori: sui lavoratori, sulla Fiom, sulla Cgil. Addirittura Brunetta è arrivato ad accusarci di essere un sindacato che difende i fannulloni e i lavativi. Credo sia un falso in atto pubblico, perchè noi, Brunetta, non l'abbiamo mai difeso. Quindi è evidente a tutti che siamo di fronte a delle bugie...
Il caso Fiat... Noi siamo di fronte a una teoria che si vorrebbe far passare in questo paese: per poter investire in Italia bisognerebbe cancellare i diritti e gli orari, per far funzionare le fabbriche in Italia ci vorrebbe il diritto di poter licenziare quando si vuole
E invece noi dovremmo porci un altro problema: perché la Fiat è messa peggio di altre aziende che costruiscono auto? Perché tutti parlano del modello tedesco e in Germania gli stipendi sono il doppio di quegli italiani, lavorano meno e vendono più macchine?
È esemplificativo quello che è successo negli ultimi due incontri che abbiamo avuto con la Fiat. Uno è avvenuto a Torino. C'erano tutti: il governo, le forze istituzionali, tutte le forze sindacali. Marchionne, cui va riconosciuto il parlare con chiarezza, non ha detto solo alla Fiom e alla Cgil «ditemi sì o no». Ha usato quella platea per dire che il suo piano industriale lo ha deciso lui, che non lo discute con nessuno, che non vuole proprio concordarlo con nessuno e che, semplicemente, chiede a tutti ­ anche al governo e alle forze istituzionali ­ semplicemente di dire sì o no.
Naturalmente, in quella sede solo la Fiom e la Cgil gli hanno detto che non va bene e che così non può funzionare.
Io, sinceramente, sono allibito quando la più grande azienda italiana ­ che, come è noto, in questi anni ha avuto tanti finanziamenti pubblici che le hanno permesso di essere quella che è ­ si trova di fronte a un governo e istituzioni incapaci di dire altro che semplicemente «sì».
Vorrei ricordare qui che il primo a dire «no» alla Fiat non è stata la Fiom. Quando la Fiat è andata in Germania per comprare l'Opel e ha presentato i piani industriali... l'IG-Metall gli ha detto di «no», il governo tedesco gli ha detto di «no». Perché, se si assume il modello tedesco, allora bisogna fare una distinzione anche sulla politica industriale. Non è vero che le imprese non abbiano una responsabilità sociale; non è vero che è solo il suo interesse. Lo ribadiamo qui, da questa piazza. Noi, la Fiom, la Cgil, le lavoratrici e i lavoratori italiani, più ancora della Fiat di Marchionne, vogliamo che in Italia si continuino a produrre auto, camion e trattori. Perché mentre lui ha la possibilità di decidere di andare a produrre in giro per il mondo, noi questa alternativa non ce l'abbiamo.
E proprio per questa ragione vogliamo che si affrontino i problemi.
Se c'è un ritardo e si vende meno, è perché in questi anni si è investito poco nell'innovazione dei prodotti e dei progetti; è perché la competizione non la si fa tagliando i salari e i diritti. Ed è sbagliato, per il paese oltre che per i lavoratori, pensare che tu la competizione la vinci solo sui bassi salari. Se c'è un problema di qualità, non si può raccontare che in Italia «non si chiede l'intervento pubblico» e poi si va in Serbia perché ti fanno i ponti d'oro. Non si può raccontare che «in Italia non serve l'intervento pubblico» e poi si va negli Stati uniti perché Obama e i lavoratori mettono a disposizione i loro soldi.
Io laovoglio dire ancora con più chiarezza: se non c'è un intervento pubblico nel nostro paese per orientare gli investimenti, la ricerca, una nuova qualità dello sviluppo, da questa crisi non si esce. Perché quelli che l'hanno determinata non possono venirci a raccontare che sanno loro come se ne esce.
E noi lo diciamo con grande responsabilità, perché è ora di smetterla. Noi non abbiamo semplicemente detto «no» a Pomigliano. Noi abbiamo avanzato delle controproposte. Abbiamo detto che eravamo pronti ad aumentare l'utilizzo degli impianti, perché il contratto che c'è permette di fare più turni. Abbiamo detto che eravamo pronti a discutere di come migliorare la produttività, di come articolare in modo diverso le pause, abbiamo addirittura fatto una proposta che darebbe alla Fiat un utilizzo degli impianti e una capacità produttiva superiore a quella che loro hanno pensato.
Stiamo ancora aspettando la risposta. La verità è che non gli interessa quante macchine si fanno; vogliono affermare l'idea che non c'è più, per le persone che lavorano in fabbrica, il diritto di poter contrattare la propria condizione di lavoro.
Lo dico con franchezza: dire qui che c'è in ballo la Fiom e la Cgil, o che voglion far fuori la Fiom e la Cgil, è solo una parte di verità.
Io penso che siamo di fronte ad un passaggio ancora più in là... E cioè il tentativo della Confindustria, della Fiat e di Federmeccanica, di cancellare il contratto con la derogabilità dei contratti nazionali.
L'obiettivo vero non è semplicemente fare fuori la Fiom e la Cgil, ma di più. E' cancellare il diritto delle persone che lavorano in fabbrica, se vogliono, di poter contrattare, di esser persone libere con la possibilità di far funzionare meglio la fabbrica. Vuol dire farci tornare indietro di cento anni.
E io credo che questo imbarbarimento non è solo inaccettabile, perché peggiora la condizione di chi lavora; ma è inaccettabile perché fa arretrare tutto il paese, fa arretrare il sistema industriale del nostro paese.
Addirittura, nell'ultimo incontro che abbiamo avuto alla Fiat a giugno, in tanti ci spiegavano che sì, Pomigliano era un brutto accordo, però si poteva firmare perché «lì c'è la camorra, perché c'è una situazione difficile». Vi ricordate, allora, in quanti ci hanno spiegato che sarebbe rimasta una cosa isolata, che non si sarebbe estesa? Non solo adesso siamo alla derogabilità del contratto, ma nell'ultimo incontro, il 5 ottobre la Fiat, ci hanno ricordato che se vogliamo sapere quale è il piano industriale (una delle stranezze di questa situazione è che non si sa quali, dove e quando saranno fatti i nuovo prodotti) prima dobbiamo firmare un accordo che permette loro di estendere Pomigliano in tutti gli altri stabilmenti. Anzi. Ci è stato detto che in alcuni casi, forse, potrebbe esserci la necessità di andare anche «oltre Pomigliano».
Ecco, io credo che quando si teorizza che, «se si vogliono i diritti, non si vogliono le fabbriche», bisognerebbe ricordare a queste persone che in realtà noi siamo già in presenza di «fabbriche che non hanno più diritti». E bisognerebbe ricordar loro che il rischio concreto, se passa questo disegno, è che l'art. 1 della nostra Costituzione («l'Italia è una repubblica fondata sul lavoro») è che noi siamo già di fronte al fatto che la nostra sia una repubblica fondata sullo sfruttamento del lavoro nelle fabbriche e nel paese.
E allora noi diciamo: siamo un sindacato che vuol fare degli accordi, del resto è quello che facciamo sempre, è quello che facciamo ogni giorno in migliaia di fabbriche. Ma, se si vuole davvero far funzionare meglio le fabbriche, allora si riaprano le trattative e si mettano le lavoratrici e i lavoratori in condizione di poter votare, di poter decidere e di poter contrattare le proprie condizioni.
Voglio rilanciare con forza quelle che sono le ragioni della nostra piattaforma, della nostra manifestazione, che è stata capace di mettere assieme tante persone diverse. Vedete, quando chi studia, chi è precario, chi lavora nel pubblico impiego, chi è metalmeccanico, chi è pensionato... trova di nuovo la possibilità di avere un terreno comune di azione che rimette al centro lavoro, diritti, un'idea di società finalmente diversa, più giusta, dove la giustizia sociale, l'eguaglianza, la solidarietà tornano ad essere elementi che unificano... io credo che questo patrimonio, è responsabilità di ognuno di noi di non farlo disperdere. Perché questa è la condizione per poter cambiare questo paese.
Per rilanciare con forza l'idea che non dobbiamo aver paura delle parole: il nostro obiettivo, sì, è trasformare questa società ingiusta, che cancella la dignità di chi lavora. La vogliamo proprio cambiare, sì, e lo vogliamo fare a partire dalle fabbriche, dal lavoro, ridando una prospettiva ai giovani e dicendo soprattutto che «è possibile».
Vogliamo una società senza corruzione, senza ladrocinii, come quella che abbiamo invece di fronte.
E allora... Se parliamo di diritti lo diciamo con chiarezza: vogliamo estendere i diritti a tutti, vogliamo l'estensione degli ammortizzatori sociali a tutti.
Diciamolo: in tanti anni ci hanno raccontato che per dare i diritti ai giovani bisognava toglierli a quelli che già ce li hanno. Facciamogli una bella risata in faccia, a chi dice queste cose; diciamogli con molta chiarezza che per noi il problema dell'estensione dei diritti, dello statuto dei lavoratori, degli ammortizzatori sociali fino anche ad arrivare a cose nuove ­ a pensare anche a forme di «reddito di cittadinanza», che affrontano in modo diverso il problema di una prospettiva per i giovani ­ è il terreno su cui noi vogliamo lavorare.
Vedete, tanti parlano, ma se le persone a volte si allontanano un po' dalla politica è perché sono stanchi di parole e bisogna essere coerenti, fare quello che si dice, provare a fare quello che si dice.
E allora io trovo giusto battersi per un fisco più giusto, trovo necessario che i lavoratori dipendenti e i pensionati paghino meno tasse perché sono gli unici che le pagano anche per quelli che evadono. Però ci vuole un po' di coerenza. Non si può venirci a dire che quando il governo ha fatto lo scudo fiscale non se ne è accorto e poi fa finta di manifestare per chedere la «riforma fiscale».
Ci vuole una coerenza. E mi permetto di dire che che questa teoria secondo cui «tutti devono pagare meno tasse», a me non convince tanto. Perchè non è mica vero.
Io penso che bisogna dire con chiarezza che i lavoratori dipendenti e i pensionati devono pagare meno tasse; gli altri ne debbono pagare di più perché hanno evaso il fisco in questi anni. Sono quelli che hanno i servizi pubblici che noi.
E vogliamo estendere i diritti anche ai tanti lavoratori immigrati. Vorrei ricordare che, al di là delle dispute nel centrodestra, noi stiamo ancora pagando la legge Bossi-Fini. Perché fanno finta di discutere tra loro. Ma poi, quando c'è da far pagare, quelli son sempre d'accordo a far pagare noi. Anche questo è un punto: l'estensione dei diritti di cittadinanza.
Diciamo anche: il contratto nazionale. Vedete, si sono incontrati e in dieci righe hanno scritto che non c'è più il contratto nazionale di lavoro. Perché si può derogare. Sapete, quando si dice che si può derogare a un contratto, sia se c'è la crisi sia per fare investimenti, vuol dire che il contratto nazionale non c'è più. E questo determina una competizione selvaggia tra le imprese e tra i lavoratori.
Dobbiamo dire con chiarezza che per noi l'unico contratto davvero è in vigore è quello del 2008, che è stato votato da tutti i lavoratori e che è stato firmato da tutti. Quello è l'unico contratto legittimo e noi lo difenderemo, fabbrica per fabbrica e nel paese, anche arrivando in tribunale, se necessario, per difendere i diritti e il contratto.
Ma penso anche che noi dobbiamo dire di più. Vi facco un esempio personale. Quando ho cominciato a lavorare, quando entravo in fabbrica, dal centralinista al progettista, sotto lo stesso tetto, tutti avevano lo stesso contratto e gli stessi diritti. Oggi se tu vai in un luogo di lavoro scopri che non è più così.
Mentre chi comanda è sempre quello, noi siamo frantumati e divisi, Ci sono diversi contratti: le cooperative, l'appalto, il subappalto, il lavoratore precario. Noi abbiamo bisogno, alla luce anche di questa grande manifestazione, di dire con chiarezza che l'obiettivo di un sindacato degno di questo nome è riunificare i diritti in questo paese. E per fare questo, se c'è bisogno di pensare a qualcosa di nuovo, io credo ci sia bisogno non di meno contratti, non di questa storiella secondo cui ognuno si può contrattare nella sua fabbrica o nel suo territorio (se non c'è un contratto nazionale che fissa i diritti per tutti, la contrattazione è una contrattazione a perdere, fabbrica per fabbrica). C'è una novità da dire: bisognerebbe pensare a un contratto dell'industria, a uno dei servizi, un altro del pubblico impiego. Dobbiamo cioè pensare a come si riunificano i lavoratori.
Tanti ci hanno chiesto: «perché nelle parole d'ordine avete parlato di legalità?» Ne abbiamo parlato perché basta vedere quello che è successo all'Aquila; perché, mentre questi raccontano che vogliono fare il ponte sullo stretto di Messina, nel frattempo fanno chiudere tutte le fabbriche che ci sono in Sicilia. Cosa dovrebbe trasportare quel ponte se le fabbriche non ci sono più? Perché, anziché sviluppare le energie alternative, si inventano di fare il nucleare. Perché in questo paese l'unico elemento che ormai c'è dappertutto, l’elemento di unità, è l'estensione dell'illegalità, ormai diventata un sistema.
Noi lo vogliamo combattere con un nuovo modello e dobbiamo anche dire che in nome della legalità, per avere dei soldi da reinvestire, bisogna anche ritirare le truppe dall'Afhganistan. E un fatto di democrazia, è un fatto centrale.
Ci sono altri due elementi.
Noi vogliamo che il lavoro torni ad essere davvero interesse generale di questo paese e vogliamo che le persone possano realizzarsi nel lavoro che fanno.
Ma per fare questo abbiamo bisogno di diritti e anche che sia possibile contrattare in fabbrica la loro condizione.
E infine, vedo due elementi di fondo. La democrazia è attaccata ad ogni livello: quella dell'informazione, dei giornali, della magistratura. Ma anche nelle fabbriche. Vedete... Perché esistono gli «accordi separati»? Semplicemente per un fatto. Perché alle lavoratrici e ai lavoratori è impedito di poter votare e decidere sugli accordi che li riguardano. Per questa ragione, noi diciamo che serve una legge sulla democrazia, che dia questo diritto e sancisca che ogni accordo aziendale, nazionale, interconfederale, per essere valido, deve essere approvato dalla maggioranza delle lavoratrici e dei lavoratori.
Non può più essere che, se i sindacati son d'accordo tra loro, allora non c’è problema. Questo deve essere un diritto delle lavoratrici e dei lavoratori, perché questa è la condizione per poter ripristinare l'unità.
Vedete, l'unità sindacale è innanzitutto un diritto delle lavoratrici e dei lavoratori; la democrazia è la condizione per poterla rilanciare. E noi, da qui, lo proponiamo con forza: questa è la prima cosa da fare, questo è il primo terreno, se si vuole recuperare un elemento unitario.
E infine ­ voglio davvero concludere su questo. Ci pensavo mentre ascoltavo anche i compagni di Pomigliano e di Melfi.
Se oggi possiamo dire che è successa una cosa straordinaria, che c'è una novità in questo paese, che il lavoro è tornato al centro della discussione sociale e politica - lo dico sommessamente - non è semplicemente perché la Fiom ha detto «no» o la Cgil ha detto «no».
No. E' successo qualcosa di più. Perché se non c'erano i lavoratori di Pomigliano che votavano «no» a quell'accordo, se non dicevano che i diritti non si scambiano con l'occupazione, se non c'erano i tre delegati di Melfi che, di fronte alla Fiat che gli dice «vi faccio lavorare, però non ti metto in fabbrica» (e loro gli hanno risposto che non si fanno pagare dalla Fiat, vogliono lavorare)... Se non c'era questo scatto di dignità non c'era questa manifestazione.
Questo è l'elemento di novità che ci dà una speranza, che ci dà la forza, che ci dice che è possibile cambiare. Ma è proprio per questa ragione - e lo dico sommessamente - perché c'è questa piazza, perché c'è questa dignità, che noi abbiamo il dovere di continuare questa battaglia.
E penso che sia assolutamente necessario che nel continuarla si arrivi alla proclamazione dello sciopero generale di tutti i lavoratori nel nostro paese. Perché la democrazia e un nuovo modello di sviluppo non si costruiscono se non c’è la capacità di cambiare. Questo elemento ci dà la forza. Grazie davvero a tutti. Viva la Fiom, viva la Cgil, viva i lavoratori!!
Grazie a tutti.

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