10.9.10

Antidemocratici.

Rimaniamo solo agli ultimi giorni.
Il presidente del consiglio cerca di scassinare la Costituzione e di portare a compimento la distruzione del liberalissimo principio della divisione dei poteri affermando che il presidente di uno dei due rami del parlamento deve rispondere a lui; una deputata della maggioranza denuncia la diffusione della prostituzione elettorale; il segretario del maggior partito di opposizione dice che la politica è ormai «una fogna»; l’associazione di categoria degli industriali rivendica lo smantellamento unilaterale del contratto nazionale di lavoro dei metalmeccanici; il sindaco di Roma e il ministro dell’interno chiedono che anche in Italia comincino le deportazioni per i migranti; la poltrona del ministero dello sviluppo è vuota nonostante quel dicastero debba gestire più di 170 tavoli di crisi aziendale [e sono solo alle aziende con più di 150 dipendenti]; il presidente del Consiglio di Stato – organo supremo della giustizia amministrativa – compare nelle liste della cricca di Anemone; un sindaco del salernitano viene freddato vicino casa sua, pare che avesse denunciato connivenze tra forze dell’ordine e criminalità.
Secondo la quasi unanime voce degli editorialisti e dei politici, l’attacco alla democrazia arriva dai contestatori della festa del Pd di Torino, colpevoli di aver rumorosamente criticato il segretario della Cisl Raffaele Bonanni. Secondo i suscettibili commentatori, gli unici a dover rispettare il savoir faire istituzionale devono essere quelli che hanno sempre scelto di metterci la faccia [e a volte la fedina penale] per esprimere critiche alla luce del sole. Più che mettere sul piatto il disco rotto dei «provocatori che fanno il gioco degli avversari», quelli del Pd dovrebbero riflettere sui successi dell’arena della loro festa nazionale, che ha ospitato ovazioni per chiunque si presentasse a correggere la linea del partito [Di Pietro e Vendola] e fischi per gli «interlocutori» istituzionali e sindacali [Schifani e Bonanni]. In alternativa, si potrebbe proporre l’istituzione della comoda e rassicurante «tessera del manifestante», che, dopo il successo di quella del tifoso, potrebbe portare a riempire le piazze con civilissimi e silenziosi contestatori di cartapesta muniti di deodoranti alle violette in luogo di fumogeni.
Si può ovviamente valutare l’opportunità di protestare. E altra cosa è discutere le forme e l’efficacia di un gesto piuttosto che un altro. Ma chi dice che fischiare in una piazza – o sventolare un’agenda rossa o cantare Bella ciao – equivale a essere violenti è un irresponsabile. Gridare alla guerra civile e alla democrazia in pericolo di fronte a un fumogeno significa indicare implicitamente la strada della clandestinità e del gesto individuale ai giovani precari e ai naufraghi della rappresentanza in cerca di uno spazio pubblico in cui far valere le proprie idee e uscire dalla solitudine.
Nell’Inghilterra che faceva scuola ai tempi della chicchissima «terza via», nessun giornale si inalbera quando l’ex primo ministro Tony Blair è costretto a rinunciare alle presentazioni del suo libro di memorie per timore di sacrosante contestazioni. Ma si sa, nell’era di Marchionne bloccare la catena di montaggio è compiere un gesto di sabotaggio alla produzione che vale il licenziamento in tronco. E fischiare un politico o un sindacalista è minacciare il libero confronto democratico.

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